Percoco – Il primo mostro d’Italia

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È stato solo un incubo, nulla di grave

afferma Franco Percoco alla vicina impicciona che chiedeva il motivo delle urla di Giulio, il piccolo dei tre figli Percoco, affetto dalla sindrome di Down, urla che aveva sentito la sera prima quando Franco, con un coltello da cucina, aveva prima ammazzato sul letto i due genitori, per poi infierire con una trentina di coltellato sul fratello “scemo”, come fu poi definito dalla stampa del tempo Giulio.

Ma la stessa frase l’avrei potuta pensare anche io alla fine della proiezione: “è stato solo un incubo”, alla fine sono stato svegliato con piacere dal riaccendersi delle luci in sala; “nulla di grave”, perché in fondo, forse, qualche elemento da salvare c’è. Procediamo con ordine.

Percoco – Il primo mostro d’Italia” è un film diretto e sceneggiato da Pierluigi Ferrandini, prodotto da Altre Storie e Rai Cinema, ed è tratto dal romanzo di Marcello Introna del 2012 “Percoco”. O meglio, il film riprende l’ultima cinquantina di pagine del libro, creando subito un problema di scorrevolezza. Il film procede a rilento, con una lentezza a tratti spasmodica, accentuata da musiche soffocanti. Le inquadrature sono in alcuni momenti claustrofobiche, per accentuare il senso di angoscia provata da Franco, ma questo certamente non giova al senso di pesantezza che accompagna inesorabilmente la proiezione.

Altro problema del film, specie se confrontato al libro, è nella caratterizzazione di Franco Percoco, interpretato da Gianluca Vicari.  Nel libro Franco viene presentato come un essere umano sofferente, distrutto dalle aspettative di una famiglia medio-borghese barese del secondo dopoguerra, che era stata messa a dura a prova dal figlio maggiore, Vittorio, cleptomane ed in carcere per questo, e dal figlio più piccolo, Giulio, disabile dalla nascita. In mezzo Franco, schiacciato fra due fratelli troppo ingombranti nella vita ipocrita della società dell’epoca, e una situazione psicologica sempre al limite del collasso. Sin da ragazzo mostra i sintomi di un esaurimento nervoso, che lo porteranno a fallire a scuola, nell’esercito e nelle numerose facoltà universitarie iniziate e poi abbandonate. Ciò non farà che inasprire le tensioni con la madre, che in Franco vede l’unica possibilità di redenzione per una famiglia degenere. Per Franco questo è troppo da sopportare, e sviluppa di conseguenza rapporti umani distorti, specialmente in amore. Torneremo su questo argomento a breve. Tutto questo porterà al terribile omicidio.

Nel film tutto questo non c’è, se non in minima parte. Il film inizia subito dopo la strage commessa da Franco, e racconta i nove giorni da lui vissuti con i cadaveri dei familiari chiusi nella stessa casa dove lui continua a vivere, prima di un’ultima disperata fuga verso Napoli, e del successivo inevitabile arresto. Nel film Franco è un personaggio monodimensionale, manca delle sfaccettature che rendono il libro veramente interessante. Non fa che ripetere a chiunque, in maniera quasi compulsiva, che la famiglia è partita per una vacanza a Montecatini, accendersi una sigaretta ed ubriacarsi. Nei rapporti con la fidanzata e con i suoi pochi amici risulta rilassato, in contrasto con l’efferatezza del triplice omicidio, andando a dipingere quel carattere di mostro che il regista sembra voler sottolineare ad ogni costo, e non permettendo al lato umano di venire fuori come dovrebbe: Franco ha sofferto tutta la vita, l’omicidio è stato un togliersi dalle spalle il peso del mondo.

“Mettete tutti i rapporti personali in uno zaino, sentite bene il peso dello zaino. State pur certi, i rapporti sono le parti più pesanti della vostra vita. Sentite come tirano le cinghie sulle vostre spalle. Non dovete accollarvi tutto. Mettete lo zaino per terra”

George Clooney in un film di qualche anno fa, Tra le nuvole (2009), pronuncia questa frase. Tutti noi sentiamo il peso dei rapporti che ci portiamo dietro. L’amore che proviamo per le persone a noi care ci fa accettare questo peso, ma ci sono momenti nei quali vorremmo lasciare lo zaino per terra. Franco non ha fatto altro che togliersi dalle spalle il suo zaino decisamente troppo pesante. Nel modo peggiore che possa esistere ovviamente.

Se tutto questo non viene descritto la sua storia perde di ogni significato. Scevra dalla situazione pregressa, la storia di Franco diventa un mero fatto di cronaca, con protagonisti personaggi di un piattume avvilente. Giancarlo Vicari, interprete di Franco, fa anche un buon lavoro nel provare a dare spessore alla sua recitazione, ma non è attrezzato per i miracoli. Un velo pietoso sugli altri interpreti del film. Il risultato di ciò è una fiction pomeridiana su Rai 1, che non è necessariamente una critica in sé, ma lo diventa quando il prodotto finale è un lungometraggio da cinema e non una puntata de Il paradiso delle signore.

Come detto all’inizio, non tutto è perduto. Innanzitutto, Bari è una città stupenda. Alcune inquadrature della città presenti nel film sono di una bellezza profonda.  D’altronde Bari è una grande città, il mare le sfiora i fianchi e le sala la pelle, stringendone i pori. Le strade sono una scacchiera d’ebano e di sera il sole dorme nel Castello Svevo. La notte i gatti fanno l’amore sotto una luna pallida, il pesce d’argento salta nei piatti mai vuoti, con il vino bianco che piove da un cielo senza nuvole, scivolando sull’olio d’oliva che non è spremuto dai frutti di quell’albero nobile, ma dagli occhi di Dio che guarda la città con benevolenza particolare, perché è il suo gioiello preferito.

Anche l’attenzione ai dettagli è lodevole, specialmente nella ricostruzione dei negozi dell’epoca, con l’avvento delle tecnologie dagli States, come la Televisione e quell’oggetto che all’epoca appariva di origine aliena, il frigorifero. Menzione speciale per i manifesti elettorali dell’epoca, molto belli!

E infine, nel film convivono bellezza e bruttezza, un contrasto particolarmente ben riuscito che si estrinseca nell’aspetto gore delle scene con i cadaveri, con vermi dappertutto, il corpo della madre esploso per i gas della decomposizione, il padre piegato in maniera innaturale nell’armadio, confrontato con la bellezza della città, con la spensieratezza dei momenti passati con fidanzata e amici e, soprattutto, con la delicatezza delle scene con Maria.

“Il profumo della tua pelle cancella il profumo di ogni altra pelle”.

Maria Panebianco, interpretata da Laura Gigante, è l’unico vero amore della vita di Franco. Prostituta napoletana, incontra Franco in una casa chiusa di Bari, luoghi frequentati abitualmente e con disinvoltura dal protagonista. Tale amore, nato in un ambiente tutt’altro che idilliaco, è per Franco il momento più umano, più romantico, più vero, più libero della sua esistenza. È un amore assoluto, come l’amore dovrebbe essere, nel senso classico del termine: è slegato da ogni preconcetto e limitazione. Con Maria lui scopre cosa significa e quanto sia bello fare l’amore; con lei non è il fratello di un galeotto e di uno “scemo”; con lei non è un continuo fallimento.

Ma, come tutte le cose belle che capitano a Franco nella vita, è una storia destinata a durare poco: la madre di Maria si ammala, e lei torna a Napoli, finendo per ammalarsi lei stessa e morire di lì a poco, senza che Franco lo sapesse. Lui la cercherà, inutilmente, per anni, fino al giorno dell’arresto. Questo ha lasciato un segno indelebile nella sua vita.

Il profumo della tua pelle cancella il profumo di ogni altra pelle

scriverà Franco in una lettera mai ricevuta indirizzata a Maria. L’olfatto è una brutta bestia, perché si avviluppa in maniera impertinente nel tuo cervello, e ti scatena sensazioni profonde. Quando inizi a sviluppare sentimenti veri e profondi verso una persona senti il suo odore in lontananza, ne percepisci la presenza. Il volto può sfocarsi nella memoria, ma il profumo ti entra dentro, e non ne esce più. Maledetto olfatto!

Non è un caso che gli ultimi giorni prima dell’arresto, quando ormai il puzzo dei cadaveri della sua famiglia aveva attirato l’attenzioni di vicini e forze dell’ordine, e quindi il suo arresto era inevitabile, che Franco sia andato a Napoli. A distanza di anni c’è ancora una forza ineluttabile che lo ha portato lì, un’energia che automaticamente gli fa ricercare l’unico vero sprazzo di luce in una vita di oscurità profonda.

Concludo tornando all’inizio, come completando un uroboro (d’altronde la vita non è che un continuo ripetersi di una serie infinita di istanti, come serpenti che si mordono la coda): “è stato solo un incubo, nulla di grave” diventa, in base a quanto scritto, quasi un incoraggiamento a chi ha lavorato al film. Un prodotto non del tutto riuscito, pesante al limite del noioso, un pendolo che oscilla fra un esercizio di stile (seppure ben riuscito) e una fiction della striscia pomeridiana. Ma ci aspetti positivi che lasciano intuire del buon potenziale. A volte è solo una questione di prospettive. E forse per questo film ne è stata scelta una sbagliata.

Regista: Pierluigi Ferrandini

Cast: Gianluca Vicari, Giuseppe Scoditti, Rebecca Metcalf, Federica Pagliaroli. Laura Gigante, Raffaele Braia, Gegia, Fabrizio Traversa, Antonio Monsellato, Michele Mirabella

Durata: 1 ora 44 minuti

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Il Cinema è come il sangue: non posso mai restarne senza, pena la morte. Ci siamo capiti, vero?
percoco-il-primo-mostro-d-italiaUn prodotto non del tutto riuscito, pesante al limite del noioso, un pendolo che oscilla fra un esercizio di stile (seppure ben riuscito) e una fiction della striscia pomeridiana. Ma ci aspetti positivi che lasciano intuire del buon potenziale. A volte è solo una questione di prospettive. E forse per questo film ne è stata scelta una sbagliata.

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